L’ineffabile peso della memoria

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Un cappottino rosso di bimba, nel buio del male che si estende. Solo così, per la mia forse fragile sensibilità, l’ineffabile peso della memoria si fa sopportabile. O meglio, solo così l’ineffabile peso della memoria prende senso e consistenza, non diventa distruttivo ma costruttivo. Solo così, infatti, prende corpo una speranza di futuro laddove nessun futuro sembrerebbe in diritto di prospettarsi.

La memoria della Shoah è un peso quasi impossibile da sostenere. Il nostro piccolo essere e la nostra limitata mente sono schiacciati dall’enormità del male compiuto: e per quanto le narrazioni, le riflessioni, le commemorazioni si siano susseguite e ciascuna abbia arricchito di bellezza e poesia la tragicità dei vissuti, il timore e il tremore di fronte all’immensità dell’ingiustizia commessa sembrano infine sovrastare ogni altra emozione e ogni altra considerazione. Inevitabilmente, l’enormità di quanto accaduto ha messo e mette tuttora in discussione Dio stesso, il fondamento ultimo della verità e della speranza per l’uomo.

Elie Wiesel, vittima superstite, testimone diretto di quella sofferenza, ha raccontato di quando si rese conto che Dio era ad Auschwitz. Fu quando si rese conto che Dio lì vi moriva, durante l’impiccagione di un bambino:

Dov’è il buon Dio, dov’è? – domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava. I due adulti non vivevano più. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora… Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spentiDietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca… Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.[1]

La vittima è per Wiesel Dio stesso, che muore nel bambino innocente dagli occhi tristi. «Mai dimenticherò quegli istanti che hanno assassinato il mio Dio e la mia anima. Mai dimenticherò le fiamme che hanno divorato per sempre la mia fede», scrive ancora Wiesel.[2] La violenza sui bambini è il simbolo dell’insensatezza e dell’assurdità del male, che colpisce senza pietà i più innocenti tra gli innocenti. Nel mio libro su Moltmann ho scritto, grazie a lui e con lui, che proprio laddove avviene una tale bruta violenza è necessario interrogarsi su Dio, e sul senso dell’esistenza.[3] Nel mezzo della disperazione va cercata la speranza.

Una bruta violenza che accade tutt’oggi, sotto i nostri occhi, e cui non sappiamo rispondere, anche perché la nostra speranza è troppo debole. La speranza di potercela fare tutti assieme, unendo le forze dei più ricchi a quelle dei più poveri. Così i più deboli, affamati e poveri vengono tenuti fuori dai confini dei ricchi. Si ripristina Schengen quasi in concomitanza con la giornata della memoria. Il peso della memoria, ineffabile, si eclissa quando è comodo rimuoverlo. Poi però noi, europei colti e sensibili, andiamo alle commemorazioni della Shoah e non possiamo non pensare che lo sguardo del bambino ebreo degli anni ’40 che emerge dalle foto di allora e che sappiamo sarà presto gassato è simile allo sguardo dei bambini siriani in cammino verso i nostri agognati confini, ai quali probabilmente non arriveranno vivi. Di che memoria si tratta se siamo sempre e ancora capaci di chiudere gli occhi davanti al male, di lasciarlo fuori dalle nostre case perché non sappiamo arginarlo altrimenti? Solo questo ci ha insegnato la storia dell’umanità?

Occorre ricominciare dalla speranza che ci sia futuro per tutti, occorre ricominciare dalla protezione dei più deboli e innocenti, dalla cura dei bambini. Occorre far vivere dentro e fuori di noi la bambina col cappotto rosso, darle dignità, fiducia e possibilità concrete di vita e di speranza. Affinché l’ineffabile peso della memoria non si trasformi in rimozione, ma in speranza concreta per il futuro.

 

[1] Elie Wiesel, La notte, La Giuntina, Firenze 1980, p. 66.

[2] Ibid., p. 39.

[3] D. Dibitonto, Jürgen Moltmann tra teologia e filosofia, Trauben, Collana a cura del Centro Studi Filosofico-Religiosi Luigi Pareyson, Torino 2007, cap. 1.3 Auschwitz: dov’era Dio?, pp. 33-43.

Resistere all’orrore

Resistere all’orrore

Le immagini dei corpi lacerati incombono su di noi: le vittime dell’attentato di Parigi del 13 novembre, del 12 novembre a Beirut, del 20 novembre all’Hotel Radisson Blu a Bamako e dei terroristi suicidi saltati in aria a Saint-Denis (penso in particolare all’agghiacciante racconto di un agente del corpo speciale francese, il quale ha detto di aver visto la colonna vertebrale della terrorista Hasna, prima donna a farsi esplodere in Europa, cadere su una dello loro auto durante il blitz in cui è morto anche Abdelhamid Abaaoud, la mente degli attentati di Parigi). Bruxelles, da due giorni sotto un nuovo tipo di “coprifuoco antiterrorismo”, è ancora paralizzata dalla minaccia di attacchi terroristici e dalla caccia a diversi potenziali attentatori. Il clima è da guerra totale, anche se nove giorni fa solo la Francia sembrava avere il coraggio o la volontà di dichiararla. Pochi giorni dopo è intervenuto Putin a suo sostegno, essendo peraltro la Russia già impegnata da un paio di mesi in attacchi militari contro l’Isis e in appoggio al dittatore siriano Bashar al Assad. Lo Stato Islamico, mandante dichiarato degli attentati, ha infatti conquistato i suoi territori proprio in Siria, inserendosi di prepotenza nella guerra civile contro Assad e riuscendo a far confluire in sé diversi movimenti islamici jihadisti. La Russia si è dunque mostrata immediatamente pronta a volgere a proprio vantaggio la situazione critica. Oggi però anche Obama, incassate le critiche per il suo atteggiamento attendista, ha dichiarato che l’Isis sarà distrutto, seppur insistendo sulla necessità di deporre Assad per porre fine alla guerra civile siriana e promettendo di rimanere fedele ai valori occidentali. Anche gli esperti di politica internazionale sembrano divisi tra interventismo e prudenza: posto che la Siria è in questo momento il territorio al centro del problema, è meglio intervenire con violenza per sradicare lo Stato Islamico con qualsiasi mezzo o piuttosto pianificare strategicamente ogni mossa e lavorare parallelamente sul piano diplomatico per deporre Assad, tagliare i finanziamenti all’Isis, e sventare i piani terroristici con l’intelligence dei servizi segreti e l’azione delle forze speciali?

A livello politico ritengo più efficace la seconda soluzione, sostenuta dagli Stati Uniti di Obama. Tuttavia, sapere quale risposta dare sul piano politico e sperare che i leader delle potenze mondiali vi si attengano non basta affatto. E’ certamente necessario analizzare la questione dal punto di vista politico e prendere decisioni chiare, il più possibile condivise a livello internazionale. E’ necessario che Stati Uniti e Russia trovino una mediazione, pur nelle loro posizioni antagonistiche. E’ necessario essere uniti, come ha detto Anne Hidalgo, sindaco di Parigi. Eppure queste risposte politiche, preziose, non placano per nulla la mia ansia, né il mio bisogno di comprensione. Immagino non accada solo a me. La domanda cui né la politica né la cronaca possono dare risposta è quella antica, ben nota ai filosofi: unde malus? Come si genera un tale male? Cosa rende possibile un tale orrore? E a questo aggiungo una domanda personale, che mi sembra però rispecchiare lo spirito del nostro tempo (occidentale, certo): cosa posso fare io per resistere al terrore?

Leggo con una certa bramosia i profili degli attentatori catturati: molti già schedati per terrorismo e già condannati per reati di delinquenza “ordinaria”. Profili per noi incomprensibili: spesso si tratta di persone che un lavoro in Occidente lo avevano trovato, ma lo hanno abbandonato per unirsi alle forze dell’Isis. Leggo le storie dei foreign fighters con gli occhi delle loro madri, ma oltre ad avere padri assenti e qualche difficoltà di socializzazione, non trovo altri elementi comuni e determinanti per comprendere coloro che compiono scelte così dolorose e radicali. Ancora una volta, comprendere il male non è impresa facile. Arginarlo, nemmeno. Eppure in queste ore non possiamo non chiederci: come resistere all’orrore? Come combatterlo?

Propongo alcune possibili strade di resistenza, ciascuna da approfondire ulteriormente e anche da incarnare secondo la propria singolarità. Parlo di resistenza pensando a due filosofi in particolare: Bonhoeffer e Rogozinsky. Se il primo è noto a molti per essere la figura più significativa della resistenza tedesca al nazismo, il secondo è un filosofo francese piuttosto giovane e molto interessante che in un testo dal titolo Le moi et la chair del 2006 sostiene che l’io sia un resistente per eccellenza: “resisti, resisti, perché tu esisti”.

Io resisto al male quando:

  1. Mi trattengo dal giudicare troppo rapidamente. A noi tutti viene voglia di scagliare la propria rabbia per quanto di male sta accadendo contro qualcuno (siano i nostri propri errori di occidentali, siano le forme di estremismo altrui, siano gli interessi economico-politici dell’una o dell’altra parte), ma sappiamo che scagliare la propria rabbia senza discriminare il bene dal male, e senza pietà per l’altro uomo che mi sta di fronte, è solo un moltiplicatore del male, non il suo argine.
  2. Leggo e mi informo attraverso fonti diverse per capire quel che accade con la maggiore ampiezza possibile. Tuttavia, sono consapevole dei limiti del mio sguardo. Non ho guardato Al Jazeera e non ho accesso a fonti arabe, purtroppo, e non riesco nemmeno a ricavare il tempo necessario a leggermi qualche testo di approfondimento sull’Isis o sulla storia della filosofia araba per comprendere meglio le radici della violenza e della radicalità di una parte di quella cultura. Però so che è un mio limite e non pretendo di conoscere e giudicare popoli, religioni e culture così distanti da me e dalla mia formazione. Gradirei ovviamente che questo atteggiamento fosse reciproco (e quindi, per esempio, che non mi si giudicasse una puttana solo perché sono una donna occidentale), ma se non lo assumo io per prima, come posso legittimamente chiedere ad altri di farlo?
  3. Sono solidale con chi soffre. Con chiunque soffra, e per qualunque motivo soffra. Se tendo una mano oggi a una persona che sta soffrendo, argino il suo dolore presente, ma riduco anche il suo dolore di domani. E soprattutto, riduco gli effetti negativi che quel dolore avrà sulle persone che lo circondano. Perché non si sarà sentito solo quando ha avuto bisogno, e avrà più probabilmente fiducia negli altri. Il male si argina solo operando il bene. E il bene è ciò che do gratuitamente a chi ne ha bisogno, nel momento in cui ha bisogno.
  4. Provo gratitudine per l’amore e il bene che ricevo. Tutti noi siamo in vita, e desideriamo continuare ad esserlo, grazie all’amore e al bene che abbiamo ricevuto e che riceviamo quotidianamente dalle persone che ci circondano. La vita umana si sostiene innanzitutto con il bene e con l’amore, ma se non lo riconosciamo e lo consideriamo dovuto, scontato, già noto, se non proviamo stupore e gratitudine per un miracolo che si ripete, rischiamo di spegnere la nostra capacità di illuminare le nostre vite della bellezza che meritano. E se lasciamo spegnere nel buio la bellezza delle nostre vite siamo più facilmente preda di pessimi sentimenti, che possono essere l’anticamera del male, nostro e altrui.
  5. Mi raccolgo in me stessa, ascolto i miei sentimenti e le mie paure, e le affido a Dio, o all’amore per l’umanità, o a ciò che mi oltrepassa e a cui non so dare nome. In una parola, prego.

Così, ma anche altrimenti, possiamo resistere al male. Ciascuno nel microcosmo delle proprie vite, passioni, speranze, relazioni. Resistere all’orrore è oggi un imperativo esistenziale e morale.

 

 

 

DIALOGO APERTO – OPEN DIALOGUE

L’obiettivo della terapia è generare dialogo, non trovare soluzioni. Le soluzioni nascono dall’ascolto di tutte le voci, dalla possibilità che si dà a tutti di immaginare una soluzione e di fare proposte: nascono dalla volontà di incontrarsi, capirsi e aiutarsi davvero, dalla capacità di essere polifonici. Questo è ciò che suggerisce l’esperienza finlandese di dialogo aperto che sta riuscendo a far diminuire l’incidenza della schizofrenia nella Lapponia occidentale.

Lunedì sera 5 ottobre 2015 ne abbiamo parlato a Robe da matti, la settimana della salute mentale di Torino, al Cecchi Point. L’invito ricevuto da Claudia Alonzi a intervenire sul tema mi ha dato l’occasione per scoprire questo interessante approccio alle gravi crisi psicotiche e i suoi notevolissimi risultati: tra l’81% e l’84% di guarigioni ottenute (dove con guarigione si intende il ritorno attivo alla vita sociale e lavorativa, senza necessità di cure farmacologiche di supporto), il calo dell’incidenza dei nuovi casi di schizofrenia nella Lapponia occidentale (da 33 nuovi pazienti l’anno su 100.000 abitanti nel 1985 a 2 nuovi pazienti l’anno su 100.000 abitanti nei primi anni del 2000), fino alla diminuzione della proporzione dei casi di schizofrenia nello spettro dei disturbi psicotici, a significare che poche crisi acute si sono poi evolute in vere e proprie patologie schizofreniche.

I principi guida del dialogo aperto sono sette:

  1. l’aiuto immediato all’insorgere della prima crisi
  2. l’approccio sistemico alle relazioni famigliari e sociali, con il coinvolgimento attivo dei membri della famiglia e/o della rete sociale nel processo terapeutico e decisionale
  3. la flessibilità e la mobilità, perché la terapia se possibile si svolge a domicilio e non segue parametri predefiniti né nella frequenza, né nella durata né nel numero di incontri necessari al buon esito della terapia
  4. la responsabilità, perché ciascun professionista e ciascun paziente o familiare è invitato a riflettere sugli effetti che le proprie parole possono produrre, e in particolare i professionisti non prevedono riunioni separate e a loro riservate per discutere il caso, ma si confrontano riflessivamente nel corso degli incontri con pazienti e familiari
  5. la continuità psicologica, ovvero la continuità di relazione con i terapeuti di riferimento
  6. la tolleranza dell’incertezza, ovvero la capacità di essere emotivamente e riflessivamente presenti in momenti di alta tensione emotiva e psicologica, senza cedere alla tentazione di trovare immediatamente una soluzione in cui incanalare o imbrigliare la sofferenza e la difficoltà
  7. il dialogo e la polifonia, ovvero la capacità di mantenere aperto l’ascolto di tutte le voci che partecipano o che sono implicate nella situazione problematica di un paziente o di una famiglia e la capacità di fare sintesi e nuove proposte sulla base di quanto detto dagli altri

In questa prospettiva la parola “dialogo” non è opposta alla parola “conflitto”. Dialogare non significa andare sempre d’accordo e discutere serenamente anche dei problemi più intimi e difficili. Dialogare significa invece stare dentro all’apertura della parola e della relazione con l’altro anche quando queste sono particolarmente difficili, scomode, sgradite. Anche quando la parola è violenta, persecutoria, rabbiosa, oscena può rappresentare, in un contesto terapeutico, una richiesta d’ascolto e di dialogo, un bisogno di relazione. E può essere l’occasione per operare un cambiamento, col supporto della rete professionale e sociale.

Dialogare significa dunque tenere aperta la speranza anche laddove non sembra esservi ragione per averne.
Per chi volesse approfondire, maggiori informazioni sono raccolte nel seguente articolo di Chiara Tarantino e nel libro di Jakko Seikkula da lei curato, dal titolo Il dialogo aperto. L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche, Giovanni Fioriti Editore (2014), così come nel bel documentario dello psicologo Daniel Macker.

Filosofia è desiderio di generare nella bellezza

Non posso fare a meno di pensare a Diotima, per provare a dire cosa significhi filosofia.

Filosofia è desiderio di generazione nella bellezza, desiderio che si esprime nel pensiero e nel dialogo. E’ desiderio di verità, di comprensione, di bene. E’ consapevolezza della loro mancanza. E’ stare in dialogo con gli altri, ascoltare i pensieri e le voci di tutti, per generare senso nel non senso, un senso che sia condivisibile e, se possibile, condiviso. Per generare quel bene che sempre ci manca e tuttavia sempre, finché siamo in vita, desideriamo.

La povertà di eros ci parla attraverso i secoli. Vive in noi oggi come nella Grecia antica di Socrate e Platone. Siamo eredi di grandi tradizioni e di grandi religioni che raramente si conoscono e si comprendono a vicenda, siamo figli della secolarizzazione che spesso alle religioni nega dignità e senso, siamo affascinati e attratti da altre culture e saperi (come il buddhismo, l’induismo, le pratiche yoga o zen) che tuttavia fatichiamo a incarnare, e così, paradossalmente, in mezzo a questa grande ricchezza ci sentiamo poveri di esperienze di senso. Poveri di desiderio. Pieni di paura.

Che fare? Prendiamoci cura del nostro desiderio di conoscenza. Osiamo conoscere, osiamo sperare che lo studio, la ricerca, la lettura, il dialogo e la comprensione siano generativi. Osiamo comprendere di quale bellezza possa parlare Platone e quale sia la bellezza che abbia senso cercare oggi. Quella dei corpi? Se la cura della bellezza dei corpi è una parte della cura di sé ed è uno dei molti modi di volersi bene sì, ma se è un modo di conformarsi a modelli di bellezza omologata inadatti al nostro corpo, alla nostra età e alla nostra storia no. Se la dieta è una violenza al nostro corpo allora bisogna dire no, se la microchirurgia è annichilimento e negazione di una parte vulnerabile di sé allora no. Meglio pensare alla bellezza dell’anima? Chi sa ancora parlarne, chi sa ancora riconoscerla? Se ne potrebbe parlare a lungo.

Voglio proporre qui l’ipotesi che la bellezza dell’anima sia descrivibile con queste tre qualità: la capacità di sorridere e far sorridere, l’eleganza dello sguardo che traspare nell’eleganza del discorso e il dono dell’aver cura degli altri e di ciò che si fa (siccome ciò che si fa è per lo più altro da sé, è anch’esso una forma di cura dell’altro).  E’ solo un’ipotesi di partenza, per discutere e riflettere, per capire insieme di quale bellezza siamo capaci.

Filosofia psicologia psichiatria, o della relazione tra corpo e mente

Courtesy of Conny Russo
Aperture – Courtesy of Conny Russo

Filosofia, psicologia e psichiatria sono le tre discipline della relazione tra corpo e mente di cui qui si parla. Si tratta di delimitare uno spazio di vita e di pensiero che in realtà, di per sé, non ha confini. E dunque nel blog non ci si limita a queste tre discipline, ma si include molto altro: letteratura, narrazione di sé, neuroscienze, sociologia, medicina, attualità, curiosità. Tuttavia, le nostre tre aree principali sono la direzione del nostro sguardo: la direzione di chi aspira a comprendere come la mente si relazioni col corpo, e viceversa, per comprendere come le persone si relazionino tra loro, trascendendosi. Detto come da sempre è nell’aspirazione della filosofia: per conoscere l’uomo. Avere più di un’orizzonte disciplinare di riferimento aiuta chi legge (e chi scrive) a riconoscere i confini di ciascuna disciplina e a oltrepassarli. Denken heisst ueberschreiten, amava ripetere Ernst Bloch: pensare significa oltrepassare. E’ questo il fulcro di un pensiero che vuole e sa dare ragioni di speranza.